MH: Bene. Quindi, parliamo di Black Adam. Si tratta di un personaggio iconico dei fumetti e sei legato al progetto da molto tempo. Cosa ti ha entusiasmato del ruolo?
DJ: Interpretare un personaggio dei fumetti che non si era mai stato visto prima. Nessun attore prima di me aveva incarnato Black Adam, portandolo in vita. È stata un’opportunità entusiasmante per fare qualcosa che non era mai stato fatto, ma anche, cosa più importante, è stata l’occasione di interpretare e rivoluzionare il genere dei supereroi. Black Adam può essere un supereroe, un antieroe o solo un tipo cattivo a seconda di come interpreti le sue filosofie. È stato elettrizzante. E ho avuto in testa questo progetto per molto tempo, nasce da una vera passione. So che può suonare come un cliché, ma in questo caso sono passati quasi 15 anni da quando abbiamo iniziato a parlare di fare il film. Quindi è stato uno dei progetti che ho seguito per passione, unita all’opportunità di offrire qualcosa di davvero interessante, penso. Molte persone non conoscono Black Adam. Se non sei un fan sfegatato della DC allora non hai familiarità con Superman, Batman, Wonder Woman, Flash, Aquaman, Lex Luthor, e ora Suicide Squad. E quello che mi piace dire alla gente è che, in termini di superpoteri, Black Adam è allo stesso livello di Superman. La differenza è che Superman ha un codice etico a cui si attiene, motivo per cui è il più grande supereroe di tutti i tempi. Superman non ucciderebbe mai nessuno. Con Black Adam, invece, se intendi fare del male a lui o alla sua famiglia, non avrai neanche il tempo di finire una frase che lui ti avrà già ucciso.
MH: Un antieroe allora. Hai avuto qualche conflitto interiore nel recitare in contrasto alla percezione che il tuo pubblico ha di te o ti è piaciuto?
DJ: Beh, il mondo sa che ho un cuore nero come la mia maglietta e che sono un essere umano dal cuore di ghiaccio. Il pubblico che va al cinema e guarda Black Adam potrebbe non essere d’accordo con la sua visione del mondo, ma alla fine se ne farà una ragione. E adoro l’opportunità di dare vita a questo personaggio. Uno dei motivi per cui mi sono identificato così profondamente con Black Adam... Sì, vive in una zona grigia, ma la sua filosofia è in bianco e nero. Se fai del male alla mia famiglia, a quelli che amo, al mio Paese o alla mia gente, pagherai. E non ci sono domande e non c’è dialogo. Non ti assicuro alla giustizia. Non ti catturo. Muori. Ciò che è stato anche molto interessante per me, e penso che piacerà a molte persone, è che non puoi contenerlo. Non puoi dire: «Devi essere così. Non puoi farlo. Devi fare questo o quello». Mi sentivo come se l’avessi sperimentato durante tutta la mia carriera, come quando sono arrivato per la prima volta a Hollywood, per esempio. Vent’anni fa, «Non puoi chiamarti The Rock ... Non puoi parlare di wrestling professionistico. Non puoi essere così grosso. Non puoi allenarti tanto. Cambia la tua dieta. Perdi peso se vuoi essere come Will Smith, Johnny Depp, George Clooney» - che erano le più grandi star di allora - «È così che devi essere». Ci ho provato per alcuni anni e poi alla fine ho detto: «Fanculo. Non posso essere così. Non sono come gli altri. Non potrei mai essere come loro. Devo essere me stesso. Non sono in gabbia. Non puoi dirmi come devo essere. Sarò me stesso». La stessa cosa avviene con Black Adam. Quindi questo è stato uno dei tanti motivi per cui mi sono sentito in connessione con lui.
MH: Sì, agli inizi, nel wrestling, eri un cattivo e poi sei diventato il ragazzo più popolare. È lo stesso genere di cose per cui essere se stessi è ciò appassiona i fan?
DJ: Sì. Quando sono arrivato per la prima volta in WWE, sono stato definito babyface - che nella terminologia del wrestling significa un bravo ragazzo. E in quel momento Vince McMahon mi disse: «Voglio che tu sia felice e sorridente e che tu sia grato di essere qui, ed è così che ti voglio anche quando andrai via». Ero appena arrivato dal mondo del football universitario e, negli Stati Uniti, la squadra dell’Università di Miami era importante. Siamo stati dirompenti. Siamo rimasti imbattuti per dieci anni nelle gare in casa. Eravamo campioni nazionali e non solo avremmo preso tutti a calci in culo, ma glielo avremmo anche raccontato dopo. Adoravamo comportar-ci così. Eravamo solo sbruffoni. Non ero così [babyface], anche se, ovviamente, sorrido e sono affabile, ma quando è il momento di fare affari e fare sul serio, non c’è sorriso che tenga. È stata una transizione difficile per me. Ora, ovviamente, il mondo del wrestling è diverso da quello delle MMA. Sappiamo dove si va a parare, ma con me sarai sempre sulle montagne russe. Non c’è niente da ridere. Quindi, mi sono adeguato e ho iniziato a sorridere sempre, felice di essere lì. I fan hanno iniziato a sentire nelle viscere quello che stavo sentendo nelle mie, e cioè: «Questa merda non sono io, e questo non è reale». Così, dopo un paio di mesi nel mondo del wrestling, mi sono sentito dire: «Amico, ti ho visto all’Università di Miami. Non mi sembri il tipo». E il pubblico iniziò a fischiarmi ogni notte mentre ero sul ring. Ora, questo è un problema nel wrestling? No. I fan fischiano sempre tutti. Il problema era che mi aveva spinto a diventare l’ennesima grande star con la faccia da bravo ragazzo, quindi la mia uscita sarebbe stata una cosa così: «Da Miami, Florida, Rocky Maivia». «Boo», e io a sorridere. «Ehi, ehi, sì, grazie», e la cosa si è spinta oltre, al punto che i fan erano furiosi perché non ero me stesso. Ed è iniziato il vetriolo: «Vai a farti fottere, fottiti». E mi uccideva non poter dire: «Fottermi? Supera quella transenna. Vieni avanti. Dimostrami quanto sei forte». Non potevo farlo. Quindi, alla fine, mi hanno nominato Campione Intercontinentale. Non ha funzionato. Continuavano a fischiarmi. Mi hanno tolto la cintura. Mi sono infortunato: mi sono strappato il legamento crociato posteriore. Sono dovuto andare a casa. Era l’estate del 1997. All’epoca, l’Ulti-mate Fighting Championship (UFC) non era così conosciuta, ma un gruppo chiamato Pride era molto popolare in Giappone. Conoscevo quei fighter e mi dicevo: «Lo faccio? Potrei fare di più e almeno potrei essere me stesso». Poi ricevo una chiamata da Vince McMahon, che mi dice: «Ascolta. Quando tornerai ad agosto, - (eravamo a maggio) - voglio che ti unisca a un gruppo chiamato Nation of Domination. È un gruppo di heel (personaggi malvagi). Un gruppo di militanti neri. E tu sarai un heel.» Dissi a Vince McMahon: «Va bene. Ho solo una richiesta da farti». Lui dice: «Cosa?» «Quando torno, ho bisogno di parlare due minuti al microfono per poter spiegare le mie ragioni alla gente. E voglio spiegare che sono nella Nation of Domination, anche se sono metà nero e metà samoano, un orgoglioso uomo di colore. Se faccio parte della Nation non è una questione per bianchi; non è una questione per neri. Si tratta di una questione di rispetto». Lui mi risponde: «Va bene». Sono andato là fuori. E ho detto quel che ho detto alla gente: «Non è una questione di bianchi o neri. È un problema mio. È una questione di rispetto». E, da quel momento in poi, sono stato me stesso. Ho reagito come volevo reagire. Nel giro di un mese, sono diventato il cattivo più figo della compagnia. Sono arrivato a un punto in cui, in un certo senso, ero così cattivo, che i fan dicevano: «Questo è il mio ragazzo. È reale. È autentico. Mi ha appena detto: “Va’ a farti fottere”, e io lo amo». È una lunga storia da raccontare ed è la stessa cosa con Black Adam: è se stesso fino in fondo.