Se pensi che mandare messaggi mentre guidi sia pericoloso forse non ricordi com’era guidare con la cartina stesa sul volante. Sono partito da un’ora per un viaggio che dovrebbe durare tre giorni, un viaggio per disintossicarmi dallo smartphone e da tutto ciò che è digitale, e sono già in difficoltà: non riesco a trovare il ristorante di Seattle dove dovrei fermarmi come da programma. Sono agitato e nervoso, faccio inversioni a U dovunque e mi maledico per aver deciso di spegnere il mio smartphone e infilarlo nella borsa dentro il bagagliaio in modo da non poterlo raggiungere. Il mio smartphone saprebbe farmi arrivare alla meta in un attimo, dandomi indicazioni chiare con la sua voce calma. Non c’è niente di meglio.

La scienza però dice il contrario. Secondo una serie di studi, i dispositivi elettronici collegati a internet ci stanno rovinando la vita. Jean Twenge, professore di psicologia alla San Diego State University, dice che non ci sono molti studi sugli adulti ma “per i ragazzi gli effetti negativi dello schermo iniziano a presentarsi dopo due ore al giorno di utilizzo”. Twenge è l’autore di iGen: Why Today’s Super-Connected Kids Are Growing Up Less Rebellious, More Tolerant, Less Happy — and Completely Unprepared for Adulthood (che tradotto in italiano suona più o meno così: “iGen: perché i ragazzi di oggi super connessi stanno crescendo meno combattivi, più rassegnati, meno felici. E soprattutto del tutto impreparati alla vita adulta”). Secondo Twenge è importante tenere a mente che “gli effetti negativi non dipendono solo dallo schermo” ma dal fatto che, per giocare con i device elettronici, i bambini rubano tempo ad attività tradizionali che li rendono felici come muoversi o fare esercizio o stare con gli amici.

Il cervello dei ragazzi è particolarmente vulnerabile: gli adolescenti che usano device elettronici per tre ore al giorno o più hanno il 35% di probabilità in più di tentare il suicidio. A dirlo è sempre Twenge, che cita i dati provenienti da Monitoring The Future, un’organizzazione che raccoglie dati a riguardo dal 1975. Questa organizzazione ha scoperto anche che i 13-14enni che passano da 6 a 9 ore alla settimana sui social media hanno il 47% di probabilità in meno di essere felici rispetto a chi passa meno di 6 ore sui social. Lo scorso agosto inoltre, il Wall Street Journal sosteneva che la Generazione Z (i nati tra il 1995 e il 2010 circa) sono così poco abituati a ottenere informazioni da mezzi diversi dai cellulari che suonare al campanello o parlare con persone reali li terrorizza.

Io non ho mai avuto un problema con i campanelli ed ero certo di non essere dipendente dagli smartphone ma, un po’ come un bevitore chiede al medico dopo quanti bicchieri si può parlare di alcolismo, volevo sapere quanto tempo al telefono era troppo e come evitare di trasformare lo smartphone in un problema.
Ero quasi certo di usare il cellulare meno di due ore al giorno ma per esserne sicuro ho scaricato Moment, una app gratuita che tiene traccia dell’uso attivo del telefono (non tenendo conto delle telefonate o dell’ascolto della musica). Per assurdo penso di poter risolvere la mia dipendenza dalle app con un’altra app. La prima volta che la apri Moment ti avvisa che le persone sottovalutano del 100% l’uso che fanno dello smartphone. Fitbit, Twitter e Facebook mi hanno abituato a un uso competitivo delle app e così il primo giorno con Moment cerco di usare il meno possibile il cellulare: voglio vincere. Ma Moment ha ragione: il primo giorno non uso il telefono per l’ora o giù di lì che pensavo, ma per due ore e 32 secondi, prendendolo in mano 46 volte e guardandolo per ben 16 minuti appena sveglio. E stiamo parlando solo del telefono: quanto altro tempo perdo al computer, tra social, email, news e altro?

Moment, che è stato scaricato 4 milioni di volte e ha 850 mila utenti attivi, stima un uso medio giornaliero per il telefono di 4 ore e 5 minuti, prendendolo in mano più di 50 volte nel corso della giornata. E stiamo parlando solo delle persone abbastanza consapevoli di avere un problema di dipendenza da scaricare la app. Le persone passano la gran parte del loro tempo su Facebook, seguito da Snapchat, YouTube e WhatsApp, che, insieme a Reddit, secondo un sondaggio sono i social che lasciano la gente più triste e insoddisfatta.

Avevo già provato in passato a ridurre l’uso dello smartphone ma inutilmente. Diversi anni fa avevo provato a stare senza per 24 ore, aderendo al National Day of Unplugging. Si tratta di un evento creato da Reebot, un’organizzazione ebraica che cerca di modernizzare il Sabbath. Io e mia moglie avevamo deciso di fare l’amore al lume di candela quella sera ma dopo esserci persi andando a una festa e non potendo avvertire gli altri del nostro ritardo (al punto che i nostri amici erano andati via quando siamo finalmente arrivati) non abbiamo acceso nessuna candela, non abbiamo fatto sesso e, tre ore dopo aver iniziato la giornata del detox, non ci eravamo affatto disintossicati.

Per evitare di ripetere l’errore ho deciso di passare due giorni in un centro di riabilitazione da dipendenza digitale, il reSTART Center for Digital Technology Sustainability, nello stato di Washington, vicino alla sede della Microsoft. Lo so, è come andare nel reparto ustionati per curare una bruciatura di sigaretta. Il programma che voglio seguire per un weekend in realtà dura dai 45 ai 90 giorni. La maggior parte delle persone che vi partecipa è giovane ed è qui perché gioca ai videogame da 6 a 18 ore al giorno, con brevi periodi non stop. Quasi tutti provengono da famiglie ricche. Non può che essere così, visto che per iscriverti al programma devi sborsare 550 dollari al giorno. Inoltre, una volta completato il corso, possono andare in un istituto di riabilitazione per almeno sei mesi. La maggior parte di loro non ricade in tentazione e non torna al suo vecchio lavoro in cui usava il computer e si mette a fare altro finché non trova un nuovo lavoro.

Alle nove della mattina svolto in una stradina sperduta in mezzo ai boschi che porta a una casa a due piani che viene riservata agli adulti che partecipano al programma. Ce n’è una seconda per gli adolescenti. Hilarie Cash, co-fondatrice di reSTART e ispettore clinico, mi toglie il caffè da asporto che mi ero comprato alla stazione di servizio. Non è permessa la caffeina lì dentro, come anche lo zucchero e l’alcol. Entro nel salotto e mi siedo in un cerchio formato da sei uomini tra i 19 e i 26 anni. A guardarli sembrano proprio i classici patiti di internet: quattro di loro sono magri e smunti, due sono sovrappeso, tutti hanno una barba incolta e uno sembra addormentato.
Alla reSTART quasi tutti sono fanatici di videogame, un hobby che può dare molta dipendenza perché si tratta di svolgere attività competitive, sociali e in cui creando una serie di skill e migliorando ottieni determinate ricompense. Però i videogame non hanno un obiettivo reale e sono progettati con un livello di sofisticatezza psicologica degno solo delle slot machine.
Ma man mano che gli uomini in cerchio iniziano a parlare perdono quell’aria da nerd senza speranze. Sono intelligenti, sensibili e un po’ depressi. Una volta erano persone complete, avevano obiettivi e hobby anche al di fuori dei videogame, andavano a scuola, facevano qualche sport, uno addirittura, un laureato, ha lavorato per l’ufficio stampa di un senatore e poi in un’azienda all’estero. Molti suonano strumenti musicali e hanno una vasta cultura, per quanto autodidatta. Molti hanno anche avuto una o più fidanzate. Mi sento sempre meno in un centro di riabilitazione e più in una di quelle comunità fraterne in cui ci si concentra sul servire e aiutare gli altri.
Tra queste persone in cerchio c’è anche un mormone che rivela come nella sua comunità religiosa molti siano dipendenti dal porno per via della sua componente di colpa nascosta e del rischio connesso (le personalità più importanti della comunità trattano come un appestato chiunque guardi i porno). Questo mormone ha deciso di andare in riabilitazione dopo essersi indebitato per comprare video porno. Anche il porno è una forma di capitalismo e lui vuole sapersi difendere.

Nel gruppo c’è anche un tizio altissimo e magrissimo che in due mesi si è fatto 2000 ore ai videogame, roba da Guinness dei primati. Praticamente, a giudicare dal tempo che ha passato a giocare, potrebbe essere il suo lavoro. Un altro ha passato 16800 ore (quasi il 10% della sua vita, comprese le ore di sonno) a giocare a World of Warcraft prima di tentare il suicidio. Un altro tizio ha passato i suoi giorni a giocare in un PC cafè e le sue notti tra i barboni dopo che i suoi genitori per disperazione e sfinimento l’hanno buttato fuori di casa. “Ho notato che non riesco più a stare fermo a guardare un film di una certa lunghezza. E non sto parlando di filmoni pesanti, sto parlando di Star Wars: Episode IV. La generazione di oggi non sa stare ferma a guardare nemmeno i film d’azione.” Con il senno di poi, avrebbe voluto che i suoi genitori gli avessero tolto di mano i videogiochi e i device elettronici a 16 anni, anche se probabilmente la cosa l’avrebbe sconvolto. Da quando gioca ai videogame le sue skill interpersonali si sono atrofizzate. “Da quando sono in riabilitazione sto migliorando, ma all’inizio facevo fatica anche solo a guardare le persone negli occhi”, ammette.

Due dei sei uomini sembrano quasi autistici, una cosa normale in questo posto, mi dice la co-fondatrice Hilarie Cash. La comunicazione via internet è priva di tono di voce e linguaggio del corpo; è fredda e questo tende a privare delle emozioni anche chi la usa. Cash mi fa un test e anche se non sono emotivamente autistico, dal test emerge che la mia intelligenza emotiva è nella media, non certo superiore come invece mi aspettavo.

Anche con questi ragazzi la mancanza di stimoli digitali si fa sentire: mi trascino annoiato per tutta la giornata. Anzi, peggio, sono in ansia. Non tanto perché temo di perdermi qualcosa sui social ma perché ho paura di non leggere messaggi importanti per me: è il primo giorno di mio figlio alla sua nuova scuola e potrebbe essere successo qualcosa, mia mamma oggi andava dal medico con i suoi esami, per capire se si sarebbe dovuta operare o meno, un ami- co che non vedo da anni domani viene in città e ci dobbiamo mettere d’accordo per pranzare insieme, il mio avvocato ha bisogno di farmi firmare un documento importante, senza contare le questioni puramente lavorative. E tutto questo è solo una frazione delle cose che sto trascurando per essere qui senza strumenti elettronici.

Cerco di rimanere ancorato nel presente e di parlare con gli altri. Andiamo a un incontro con una specialista in dipendenze sessuali e io condivido la mia esperienza sull’uso del porno per superare il blocco dello scrittore. Dopo facciamo un workout di CrossFit molto intenso e in seguito andiamo a un altro incontro in cui uno dei presenti ci racconta di come si autopuniva tagliandosi con la lametta. Infine, puliamo la casa e cuciniamo la cena. Qui scopro una cosa importante: i nerd non sanno cucinare.

Quando viene sera un ex dipendente da device elettronici e oggi terapista ci aiuta a meditare in una piccola capanna in mezzo ai boschi. Per superare la dipendenza da internet e dai device elettronici ci sono una serie di trucchi: uscire, fare esercizio, tenere il telefono in un’altra stanza ma il trucco più importante è imparare ad annoiarsi e accettare la noia. Questi ragazzi giocano ai videogame per lo stesso motivo per cui io prendo in mano il telefono ogni 20 minuti, ovvero perché si annoiano. Siamo a disagio con noi stessi e con i nostri sentimenti e cerchiamo di distrarci per non pensarci. La soluzione è una sola: accettare la noia, l’ansia, la rabbia, il senso di colpa, il dubbio e la solitudine senza cercare di scappare. Il terapista ci aiuta a capire come fare. Per prima cosa devi riconoscere le tue emozioni e sapere che quell’emozione è passeggera, quell’emozione non sei tu e non ti definisce: devi pensare “provo rabbia” ma non “sono una persona rabbiosa”. Poi devi lasciare andare quel pensiero o quell’emozione, provare a visualizzarlo per esempio come una nuvoletta che sale in alto e poi viene portata via dal vento. A quel punto ti rilassi concentrandoti sul tuo respiro, sorridi, ti concentri su un pensiero o un’emozione positiva e ripeti il tutto fino alla fine della meditazione.

La dipendenza da internet e dai device elettronici, come ogni dipendenza, maschera profondi problemi personali e familiari. Uno dei modi in cui reSTART aiuta i pazienti sono le cosiddette “impact letters”. Si tratta di lettere scritte da persone che hanno a cuore il paziente in cui ne descrivono il comportamento e come questo abbia influenzato negativamente le loro vite. Ogni persona legge per la prima volta la lettera rivolta a lui ad alta voce davanti a tutti. Il paziente di oggi è un autistico altamente funzionale che leggerà una lettera scritta da suo padre. Nella lettera il padre spiega come non riuscisse a far alzare suo figlio dal divano e come suo figlio puzzava così tanto che sua madre non riusciva a stare nella stessa stanza con lui. Il paziente smette di leggere a metà lettera, dice che non riesce ad andare avanti. Si mette a piangere, è sconvolto e ammette di aver sprecato la sua vita. Il resto del gruppo resta in silenzio. Poi riprende in mano la lettera e finisce di leggerla: la cosa più disgustosa, dice suo padre, erano le sue mutande così sporche da essere ormai diventate marroni, le indossava per intere settimane. Alla fine uno degli altri pazienti chiede se la sua igiene è migliorata da quando fa parte di reSTART. Lui tace, poi ammette che sono cinque settimane che non si lava.

Un ex giocatore di football di 1 metro e 90 si offre di svegliarlo tutti i giorni alle 7 e di stare davanti alla porta del bagno mentre lui si fa la doccia, così da “obbligarlo” a lavarsi. Il ragazzo dice che la doccia lo terrorizza, come anche farsi vedere nudo da un’altra persona. Poi ci fa una confessione: ha mentito a tutti, e anche a se stesso, sulla sua dipendenza. Non è dipendente dai social, il problema è che passa sei ore al giorno a guardare video porno con gente travestita. Al termine dell’incontro siamo orgogliosi che sia riuscito ad ammettere il suo problema. Gli assicuriamo che è troppo giovane per aver sprecato la sua vita e tante possibilità e occasioni lo aspettano.

Quando ci alziamo per andarcene lui chiede se è troppo tardi, stasera, per farsi una doccia. Ovviamente no. Prende un asciugamano pulito, chiedendo a tutti se sia di qualcuno (è terrorizzato di usare un asciugamano sporco). Poi sentiamo l’acqua che scorre e qualcuno di noi si commuove.

Il mattino dopo mi svegliano alle sette per un’altra giornata di incontri con i pazienti, di lettura, di esercizio, di pulizia, cucina e di gestione della noia. Sto iniziando ad accettare l’assenza dei device elettronici. Il telefono mi manca di meno e ho meno paura di perdermi messaggi importanti.

Alla fine della giornata prendo l’aereo per tornare a casa. Quando atterro accendo lo smartphone per prenotare un taxi che mi riporti a casa. Sono stato senza smartphone per due giorni e sette ore e ho accumulato 4 messaggi vocali, 16 sms e 136 email (oltre a newsletter o spam). Le gestisco in meno di un’ora, durante il tragitto verso casa. È piacevole rispondere alle mail perché in questo caso non è un’interruzione di un altro lavoro ma il lavoro stesso. E anche se tutto quello che temevo è successo, rispondere con tre giorni di ritardo non è stata una tragedia. Anzi, nessuno se n’è nemmeno accorto. Ho deciso di cancellare Twitter e Facebook dallo smartphone (li guarderò sul computer, quando non sono in giro).

Il mattino dopo, mentre sto preparando mio figlio di 8 anni per la scuola, lui mi chiede se ho imparato a usare di meno il cellulare. Io gli rispondo di sì. Lui mi racconta di quando stavamo giocando a un gioco da tavolo insieme e io continuavo a interrompermi per rispondere alle email. Gli dico che non succederà più. Accetterò la noia e i momenti morti e apprezzerò il tempo che passo con mio figlio, anche perché lui è una delle cose veramente belle della mia vita, il momento felice che ho visualizzato durante la meditazione. Ho perso talmente l’abitudine a provare emozioni che faccio fatica addirittura ad essere felice.