Le valchirie boliviane


LE VALCHIRIE BOLIVIANE
“L’occhio vede solo ciò che la mente é preparata a comprendere” Henry Bergson

È convincente Riccardo Bononi nel presentare la sua disciplina: antropologia visuale. Ove é il metodo il criterio di definizione ovvero l’osservazione, il disegno, la mappa, la fotografia o l’audiovisivo.
E’ convincente nelle foto aeree di un villaggio del Madagascar nelle diverse ore del giorno per capire la suddivisione degli spazi lavorativi uomo-donna o il disegno che evidenzia la diversa percezione dei carcerati della loro cella all’inizio e 24 mesi dopo la carcerazione. Ma il discorso diventa fascinoso nei suoi reportage fotografici di studio delle donne dei centri agricoli in Bolivia. In un Paese dove non si dice “lavorare come un mulo”, ma “lavorare come una contadina”, dove le donne per tradizione si occupano dei lavori più pesanti.
Anche in città macellai o operai sono tipici lavori femminili, mentre gli uomini si vedono spesso nei commerci o in cucina o addetti ai servizi nel terziario. Come al solito ogni medaglia ha due facce: la Bolivia ha il tasso di occupazione femminile (46,8 %) più alto dell’America Latina e ad esempio superiore anche all’Italia, forse grazie alla gratuità della istruzione per questo sesso. Numerose le donne nella polizia e con una consistente rappresentatività politica, oltre il 28% dei seggi. Famosa la pittrice poetessa Adela Zamudio, attivista nei movimenti femministi di fine secolo con il nome d’arte Soledad. Lei stessa si definiva mujer-macho. Ma le foto di queste signore in bombetta e scialli colorati che si esibiscono sui ring in una specie di lotta libera la domenica mattina al mercato di El Alto a La Paz terminato il lavoro settimanale e presentate da uomini travestiti da donne che svolgono il ruolo di vallette mi sembra una storia da approfondire. Così fermo Riccardo Bononi per una intervista. A prima vista sembra non a suo agio: “sono appena tornato da un villaggio in Africa di poche anime e non mi sono ancora ambientato in Europa”, in realtà preciso e rigoroso nella sua professione di antropologo, attento al linguaggio e nella esposizione dei concetti.
Scopro che pochi giorni or sono per questi scatti si é aggiudicato il premio mondiale Sony World Photography, il più importante riconoscimento per fotografi. Chiedo come nasce un antropologo. “La mia prima laurea è stata in psicobiologia, ma dopo qualche mese in laboratorio ho sentito il bisogno di andare in contatto con gli esseri umani e sono ripartito da capo con una seconda laurea in antropologia. La mia prima vera ricerca sul campo é stata in Madagascar in un villaggio di 44 abitanti e dopo un anno di permanenza anche se non continuativa, sono stato adottato da una famiglia. Ho imparato il loro dialetto, che purtroppo non è il malgascio ma il betsileo. In antropologia caratterizzante é il metodo di osservazione partecipata, bisogna passare periodi lunghi ed evitare di considerare gli osservati come soggetti ma bensì individui. Mi sveglio prima dell’alba, vado in cucina, poi con gli uomini ai campi anche se talvolta la pigrizia mi invita a stare con i bambini. La città più vicina é a 400 km. Tra poco parto di nuovo ad osservare le conseguenze della peste. L’epidemia ha preso di nuovo vigore probabilmente per lo stretto contatto
con gli animali e i morti. La mia nipotina adottiva vive tra grandi topi con cui ha un rapporto quasi affettivo. Ovviamente manca elettricità e acqua potabile, si beve l’acqua dei pozzi bollita con la cottura del riso. Uso poco la macchina fotografica, ma nel villaggio ha assunto ormai un ruolo istituzionale, perché le foto a suo tempo scattate di persone ora defunte sono diventate una specie di icone sacre.” Vorrei sapere di più, ma voglio tornare alle nostre valchirie boliviane. “La ricerca inizia nel 2013 e ho seguito l’emigrazione da un piccolo villaggio aymara a La Paz. Le donne hanno indubbiamente un potere maggiore, ad esempio possono divorziare anche senza il consenso dell’uomo, ma nel nostro caso gioca la volontà di sopravvivenza della tradizione aymara (che unisce vari gruppi etnici per lingua parlata attorno al lago Titicaca in un confine liquido tra Bolivia, Cile e Perù). I simboli dell’identità sociale sono esibiti, così le donne definite cholite sono riconoscibili per le bombette, gonne con sottogonne a sbalzi arcobaleno multistrato che ne aumentano il già considerevole volume corporeo e il tipico scialle. Si lotta nei quartieri piu poveri della capitale e pensate che a 4000 metri sul livello del mare ogni sforzo fisico rappresenta una difficoltà.
Sono donne con figli con lavori manuali o venditrici ambulanti. Gli spettatori sono sempre molto numerosi e sono lì per identità sociale pure loro, anche se ho il sospetto che qualcuno si intrufoli anche per vedere le gambe delle lottatrici.”
L’entusiasmo con cui Riccardo parla delle sue missioni mi pone un dubbio e gli chiedo in quale ambiente si trova a proprio agio e cosa significa per lui il benessere. “Per me stare bene è la vita nel silenzio degli organi. Significa poter viaggiare, adattarsi, mangiare qualunque cibo e dal punto di vista mentale entrare in una diversa concezione del tempo. A casa della mia famiglia adottiva in Madagascar non ci sono specchi e arrivo a dimenticarmi la faccia che ho. Sul dove preferisco stare, beh, al rientro in Europa di anno in anno è sempre peggio.
Qui le persone hanno uno spazio sempre più piccolo, in senso fisico e relazionale”.