Festival di cannes 2015

FESTIVAL DI CANNES 2015
Nuovo direttore, nuova giuria, nuovi criteri di selezione e di premiazione. Questa edizione del Festival di Cannes ha definitivamente eliminato la famiglia, non solo quella allargata della civiltà rurale di ogni continente, ma anche quella piccola borghese madre padre e figlio delle periferie urbane.

Possiamo incominciare con Rams del regista Grimur Hakonarson, vincitore di Un Certain Regard, la rassegna parallela alla Palma d’Oro. In una Islanda agricola una piccola comunità di allevatori di pecore vive i suoi drammi per la presenza di un devastante virus ovino che impone l’abbattimento di tutti i capi di bestiame. In un paesaggio spettrale di precipitazioni nevose e tempeste di vento si consuma anche il ritrovamento affettivo di due fratelli vicini di fattoria che non si parlavano da quarant’anni. Ancora più esemplificativo del tema è il giapponese An, che prende il nome da una pasta dolce di fagioli rossi alla base del dorayaki, uno tra i più famosi dolci da street food in Giappone. Il regista Naomi Kawase racconta con delicate pennellate il dramma di tre esseri soli, un uomo che si autopunisce per un omicidio involontario, una vecchia isolata dall’infanzia per la lebbra e una giovane studentessa con la madre troppo impegnata a trovarsi un nuovo compagno per curarsi di lei. Ancora meglio il greco Yorgos Lanthimos con un film low budget paradossale e ironico, che potrebbe diventare cult, The lobster ovvero l’aragosta. Siamo in una società senza colori e sentimento: a 45 anni scapoli e nubili devono convergere in un hotel purgatorio in riva a un lago melanconico in una Irlanda autunnale, per essere convertiti in un animale di loro scelta. Il protagonista, l’attore Colin Farrel, ha passivamente deciso per il crostaceo del titolo. Ma vi è ancora una possibilità, tra gli ospiti si può incontrare il consorte. Ovviamente tristi connubi senza amore che spesso sfociano in tragedia. Il nostro Colin non sopporta l’improvvisata compagna e si rifugia in un bosco, dove trova una comunità ribelle, nella quale però vige una regola contrapposta ma altrettanto crudele: ognuno è libero ma il sesso è proibito. L’amore scoppia all’improvviso, ma il fatto viene punito con la cecità per entrambi. Commedia dell’assurdo, senza sorrisi né pianti, ogni attore è solo una maschera e i visi non hanno mimica. Sembra che il regista abbia costretto più di un attore a vivere alcuni mesi a base di pizza e cheeseburger, coca cola e patatine fritte per rendere tutti i lineamenti più rotondi e i visi paffuti. Amori e coppie impossibili anche in The high sun del croato Dalobor Matanic. 1991, l’inizio delle ostilità etniche fa sfociare nel dramma un amore adolescenziale tra due giovani di opposte nazionalità. 2001, alla fine della guerra una ragazza fa ritorno al suo paese distrutto e non riesce ad accettare un sentimento di un giovane della parte opposta: dieci anni di odio non possono essere ricomposti velocemente. 2011, il clima sembra cambiato e i “rave” alcolici e a base di droga apparentemente hanno ricomposto la questione etnica, ma la redenzione nelle braccia di una ragazza madre a suo tempo abbandonata non è facile. In sala viene salutata la molto presente Isabella Rossellini in una sahariana marrone senza pretese così come il trucco è minimale. Possiamo citare anche Nahid della iraniana Ida Panahandeh. L’attrice Sareh Bayat si muove con caparbietà in un universo dominato al maschile per mantenersi libera con la propria figlia. Un nascente amore, reso possibile dalla clausola del matrimonio temporaneo, mette a rischio l’affido della figlia e le autorità maschili. L’ex marito drogato e giocatore d’azzardo e il fratello succube della morale tradizionale non ne rendono facile la vita. Vorrei ricordare anche Alias Maria del colombiano Jose Luis Rugeles. Siamo nella giungla ai giorni nostri.  Maria è una tredicenne bambina soldato. Niente giochi o scuola ma ordini brutali, fuga, guerriglia e una gravidanza che va tenuta segreta per evitare un aborto d’ordinanza.
Shampoo e cerchietti per capelli valgono più di un orologio Chopard. Ma il racconto più toccante è Our little sister, titolo originale Mimachi Diary. Tre sorelle ventenni vivono da sole, abbandonate presto dal padre che si è risposato e dalla madre sempre assente e lontana. Al funerale del genitore incontrano la tredicenne sorellastra restata orfana e la adottano. Una nuova famiglia si è ricreata, ma senza padri né madri. Bellissime e bravissime tutte e quattro le protagoniste. Regista, il giapponese Kore Eda Hirokazu. Tutti film da vedere se troveranno una loro distribuzione. Probabile, per Cannes, tra divismo, passerelle, polemiche sull’obbligatorio tacco-dodici, smoking altrettanto di regola, grandi feste degli sponsor del luxury e una flotta di yacht al largo che quasi impediva di scorgere il blu del mare. In realtà quest’anno più che mai ha mostrato di essere la vera capitale del mercato distributivo. Qui da segnalare che la Cina è divenuta, dopo gli Usa, il secondo mercato sia per biglietti sia per le sale, con incrementi dell’ordine del 40%, mentre l’India da anni è prima in classifica per pellicole prodotte (Bollywood) ed è in arrivo una nuova guerra nel settore dei cartoni animati tra Russia e Stati Uniti. Dopo aver utilizzato per anni cartoonist russi per la bravura low cost, ora gli americani soffrono la concorrenza di una fantasiosissima produzione. Non a caso uno dei grandi eventi di questa edizione è stato il lancio di Inside out, il cartone della Pixar e la megafesta in suo onore sulla spiaggia.
Un altro filone pesantemente visibile è il dramma dell’Africa e del Medio Oriente. Si pensi al bellissimo Timbuctu dello scorso anno, ma nella sua parte finale, in Europa.
Il vincitore della Palma d’Oro è Dheepan del regista francese Jacques Audiard. Sul podio a ricevere il premio l’ex guerriero bambino cingalese, oggi scrittore Jethusatan Srinivasan. La storia: un guerriero tamil intravede la imminente sconfitta e fugge con una donna sconosciuta e un bambino rifugiandosi nella banlieu parigina. Si finge una famiglia e lavora sodo per ricostruire una vita sino a che non è costretto a tirare fuori i denti per salvare il poco costruito.
Ancora più realistico, quasi un documentario, Mediterranea. Jonas Carpignano, giovane regista italo-americano, racconta le speranze e le illusioni di due giovani del Burkina Faso, che decidono di espatriare con la speranza di costruire un futuro per le loro famiglie. Il viaggio a piedi nel deserto, le vessazioni dei predoni libici al confine, il viaggio in gommone e l’arrivo a Lampedusa. Arriva il fine settimana e i frequentatori del Festival crescono a dismisura e si consuma il dramma dello status, misurato dal colore del badge. In basso alla scala il nero, i lavoratori dello spettacolo, che per definizione devono soffrire per entrare, poi il giallo, il mio, appena superato dal blu. Siamo una dignitosa classe operaia che deve stare al suo posto. Segue il rosa, la classe media e infine l’aristocrazia, il bianco, rarissimo, oggetto di collezione. Ricordatevi nei prossimi eventi che l’autografo è fuori moda sostituito dal selfie e gli attori non si tirano indietro.
Non escono dalla tradizione di cattiveria e crudeltà tutti i film della Corea del Sud, tutti da non perdere se si ama il noir e si ha lo stomaco forte. Chi non ricorda il Leon d’Oro a Venezia nel 2012 di Kim Ki Duk con il suo Pietà? E così a Cannes Coin Locker girl, Office, Madonna e The shameless. Quest’ultimo del regista Oh Seung Uk porta avanti una storia tipica dell’hard boiled school americana. Un omicida ricercato da un detective altrettanto ostinato e cinico. Una femme fatale sfruttata da entrambi, la bella e intrigante Jeon Do Yeon, premio miglior attrice a Cannes nel 2007. Una trama più originale la troviamo in Madonna, dove un’infermiera viene assunta in una clinica di lusso. Un ricchissimo e potente industriale è in coma da dieci anni, tenuto in vita a colpi di trapianti da un figlio diseredato che verrebbe a perdere tutto alla morte. Ma l’infermiera saprà dare il giusto valore alla vita umana.
Evito di parlare della pur meritevole produzione italiana, rimasta a bocca asciutta in termini di premi, ma a lungo in pole position, e preferisco dedicarmi a un piccolo capolavoro, Degradè dei fratelli Tarzan e Arab Nasser. Siamo nella striscia di Gaza. In un negozio di estetista parrucchiera (chissà perché russa), sono costrette a fermarsi per una giornata tredici donne a causa di una violenta faida che insanguina le strade. Cemetery of splendor non fa presagire bene: nonostante tredici anni per fare il film, le inquadrature scorrono lente. Anche il tema non aiuta, dove si mescolano fibre ottiche e leggende tradizionali. Una sintesi della trama la si può avere da una battuta della protagonista: “la città è noiosa, meno male che ci sono i soldati in coma”. Con il cuore greve assisto a Las elegidas di David Pablos, una sorta di manuale di istruzione per il giovane Ulisses su come intraprendere
il mestiere di gestore di bordello in un Messico crudele ma credibile. Tema di nuova antropologia, così come Taklub di Brillante Mendoza, dove una piccola comunità nelle Filippine tenta di reagire alla distruzione operata dal tifone Hayan nel 2013. Una microstoria per rappresentare un evento epocale anche in The fourth direction dell’indiano Chauti Koot, che narra in una piccola fattoria nella piana del Punjab la guerriglia dei Sikh per l’indipendenza contro il governo forte di Indira Ghandi e l’assalto al Golden Temple nel 1984. I sanguinosi eventi sono ascoltati con i tempi della civiltà agricola, dove la mungitura o il ruminare delle mucche sono fatti altrettanto preziosi. La nostalgia è ovunque, così come il sentimento di attesa e paura in ogni istante. “Ora che sei cittadina, quando mai troverai il tempo?” sentenzia uno dei personaggi. Bene, alla fine
un film francese mi ridarà tranquillità e un sorriso. Invece no, le commediole ci sono ma girano nelle sale comuni e non sono al Festival. Qui proiettano Marguerite e Julien,
poco apprezzato da giornalisti e critica.
Una storia peccaminosa con la cinepresa in mano all’attrice ora regista Valerie Donzelli e Geraldine Chaplin tra gli interpreti. Nella Francia del 1600 due fratelli di una piccola nobiltà di provincia si amano e vanno incontro alla loro sorte infausta. Perché “in 10, 100, 1000 anni l’incesto è un crimine e tale resterà” come dice il Consigliere di Stato.
Sembra che non siano ancora al corrente delle ultime scoperte della moderna antropologia, che vuole il divieto dell’incesto come regola per obbligare uno scambio tra comunità. Il
ritmo è finalmente veloce e la scabrosità della trama è fortemente attenuata dall’artificio di raccontare la storia a un gruppo di giovani fanciulli, con l’intervento di luoghi e chiavi di lettura moderni, appaiono le radio, le automobili e il gioco del calcio.